Linee guida, il gender c’è e si vede

Dopo l’approvazione delle linee guida del ministro Fedeli sull’educazione alla parità tra i sessi, non si ferma il dibattito sulla natura del provvedimento, sugli aspetti positivi evidenziati dal leader del Family Day Massimo Gandoflni e sui possibili problemi a cui invece il documento rischia di aprire. In quest’ottica pubblichiamo un intervento giunto in redazione come contributo alla discussione. 

Caro direttore,

il secondo giorno di scuola di questo anno scolastico, in una prima superiore di una provincia emiliana, un’insegnante di storia si è presentata alla classe parlando dell’importanza della sua materia e spiegando che il processo che ha portato all’abolizione della schiavitù negli Stati Uniti è lo stesso che ha portato all’approvazione della legge sulle Unioni civili in Italia, senza cui gli omosessuali – spiegava – sarebbero oggi senza diritti. Ripensavo a questo episodio leggendo quanto accaduto al Pertini di Milano e mi trovavo a riflettere ancora una volta sull’evidenza che il gender nelle nostre scuole italiane ormai è definitivamente penetrato. E non sta solo nei progetti extracurriculari, per cui sarà sempre più difficile sottrarvi i bambini. Lo confermano le Linee guida del Ministero dell’Istruzione all’articolo 1 del comma 16 della legge sulla Buona Scuola, recentemente pubblicate, che si intitolano «Educare al rispetto: per la parità tra i sessi, la prevenzione della violenza di genere e di tutte le forme di discriminazione». Il testo è  disponibile sul sito del ministero e vale la pena leggerlo integralmente per averne un giudizio chiaro.

Nelle premesse si ricorda il comma in questione: «Il piano triennale dell’offerta formativa assicura l’attuazione dei principi di pari opportunità promuovendo nelle scuole di ogni ordine e grado l’educazione alla parità tra i sessi, la prevenzione della violenza di genere e di tutte le discriminazioni». Si illustrano poi i testi normativi di riferimento per spiegare che le Linee guida «rispondono alla necessità di fornire alle scuole indicazioni utili a coniugare l’informazione con la formazione, intervenendo attraverso un’azione che non si limiti a fornire conoscenze, ma agisca sull’esperienza e sulla dimensione emotiva e relazionale» e che «l’educazione contro ogni tipo di discriminazione e per promuovere il rispetto delle differenze è fondamentale nell’ambito delle competenze che alunne e alunni devono acquisire come parte essenziale dell’educazione alla cittadinanza. Tale educazione non ha uno spazio e un tempo definiti, ma è connessa ai contenuti di tutte le discipline, con la conseguenza che ogni docente concorre alla crescita relazionale e affettiva delle alunne e degli alunni». Per quanto scritto in burocratese, si mette nero su bianco bianco che stiamo parlando di un’attività che non si limita a fornire conoscenze, ma agisce sulle esperienze e sulle dimensioni emotiva e relazionale e che non parliamo di progetti extra curriculari ma di un approccio che riguarda tutte le discipline, concetto che verrà ripreso molte altre volte nel testo. La premessa si conclude sintetizzando che lo scopo del documento è quello di «orientare l’azione educativa per prevenire la violenza di genere e tutte le forme di discriminazione». Orientare l’azione educativa.

Il primo paragrafo si intitola «Educazione alla parità tra i sessi e al rispetto delle differenze». Vi si legge: «Secoli di patriarcato hanno rappresentato le donne come naturalmente subordinate agli uomini […] Secondo questa millenaria tradizione le donne sarebbero soggetti deboli, incapaci di pensiero astratto, dominate da una realtà corporea invadente, emotive piuttosto che razionali. Questa ideologia ha caratterizzato i rapporti tra i sessi e l’organizzazione familiare, ma anche la struttura sociale del mondo occidentale, dove fino alla fine dell’Ottocento le donne sono state escluse dai luoghi dove si è trasmesso e creato sapere, dove si sono elaborate le leggi, dove si è amministrata la giustizia. […] Simbolicamente ciò ha comportato nel tempo la riduzione delle donne a corpo, dominato dall’uomo e destinato alla cura esclusiva della vita. Alle donne è stata sottratta una dimensione pienamente umana, con conseguente esclusione dallo spazio pubblico, dall’esercizio della cittadinanza, dall’autodeterminazione e dalla libera scelta. Per tutti questi motivi la prima differenza che sperimentiamo nella nostra vita è stata di solito trasmessa come gerarchica e tale diventa il modello che profondamente interiorizziamo, differenza come disuguaglianza: se c’è una differenza, allora qualcuno è migliore e qualcuno è peggiore e, soprattutto, c’è una dimensione di potere dell’uno sull’altro».  Lo stralcio è ampio ma va letto con attenzione: secondo il ministero la mancata autodeterminazione della donna l’avrebbe privata di una dimensione pienamente umana, oppure che veniamo da una non meglio precisata tradizione millenaria che vede le donne come incapaci di un pensiero astratto e ancora che la prima differenza che apprendiamo nella vita – evidentemente quella tra papà è mamma – sarebbe solitamente trasmessa come gerarchica e di conseguenza vedrebbe qualcuno in posizione di dominio e qualcun altro essere considerato come peggiore.

Ma c’è dell’altro. «Bambini e bambine, uomini e donne sono tra loro diversi e ciò rende l’esperienza umana molto ricca. Tuttavia molto spesso dalle bambine e dalle ragazze si aspettano comportamenti e inclinazioni che corrispondono a idee e immagini molto normative: devono essere gentili e sensibili, amare i giochi tranquilli, le faccende sentimentali, ed essere ossessionate dalla apparenza fisica e dallo sguardo degli altri. Secondo uno stereotipo diffuso non amerebbero le scienze e la matematica, lo sport e la competizione. Altrettanto rigide e opprimenti le aspettative sui bambini e sui ragazzi: non devono avere timori né sensibilità o dolcezza, è indispensabile che amino il calcio e ogni tipo di gara, devono accettare giochi violenti e sapersi difendere. […]  Anche l’ambiente scolastico rappresenta un contesto in cui i modelli culturali stereotipati e presentati come naturali possono essere strutturati e amplificati,».  Mi chiedo se chi ha scritto questo paragrafo parli davvero dell’Italia del 2017 e anche a cosa alluda parlando di modelli culturali stereotipati presentati come naturali….

Al surreale non c’è mai fine ed ecco che arriva il secondo paragrafo, dedicato a «Il femminile e il maschile nel linguaggio». Per non farla troppo lunga rimandiamo al documento originale chi volesse averne un’idea precisa: una mini lectio degna della presidenta Boldrini sull’uso del femminile.

Il terzo paragrafo è dedicato alla «Prevenzione della violenza contro le donne».Leggiamo: «è chiaro che a esercitare la violenza contro le donne sono uomini. Per capire cosa le determina, quali stereotipi e modelli relazionali le fanno apparire giustificate, quali insicurezze nascondono e per attivare il protagonismo degli uomini e dei ragazzi, come da tre anni chiede la campagna dell’ONU HeForShe, lanciata a settembre del 2014 con l’obiettivo di creare un’alleanza tra donne e uomini per sconfiggere la violenza e ogni forma di discriminazione». Il testo è completo di nota, dove si spiega che HeForShe è una campagna in favore dell’uguaglianza creata dall’ente delle Nazioni Unite per l’uguaglianza di genere e l’empowerment delle donne. È indicato anche il sito di riferimento, sul quale vale la pena fare un salto, anche solo per la sezione «Identity», dove una foto con due uomini abbracciati e sorridenti accoglie il navigatore dicendo: «Nessuno deve essere trattenuto da stereotipi negativi su chi è, chi ama e come esprime se stesso».

Rimandiamo al testo originale anche per il quarto paragrafo, dove si parla delle “discriminazioni multiple”, tra cui rientrano anche quelle sull’orientamento sessuale, e per il quinto, dove troviamo l’immancabile sermone minatorio sul cosiddetto “hate speech” e andiamo al paragrafo sei, quello in cui si parla del consenso informato. Si intitola: «L’educazione al rispetto a scuola» e si spiega che il principio di pari opportunità, «la cui attuazione […] deve essere assicurata dalle istituzioni scolastiche mediante il Piano triennale dell’offerta formativa (PTOF)», costituisce «un principio trasversale che investe l’intera progettazione didattica e organizzativa. Pertanto, l’educazione al rispetto, intesa in tutte le sue accezioni, non ha uno spazio e un tempo definiti, ma è interconnessa ai contenuti di tutte le discipline e al lavoro delle docenti e dei docenti che dovrà essere orientato a un approccio sensibile alle differenze, anche mediante la scelta di libri di testo che, nel rispetto della propria libertà di insegnamento, tengano conto delle presenti linee guida» ecc.

La domanda a questo punto sorge spontanea: ma se nelle Linee guida si mette nero su bianco che il Piano triennale dell’offerta formativa deve ispirarsi ai principi illustrati nelle Linee guida e se in più passaggi si sottolinea e si ripete che tali principi non riguardano attività extra curricolari ma tutte le discipline, senza una limitazione di spazio e tempo, che stiamo parlando di un approccio che investe l’intera progettazione didattica e organizzativa, se anche i libri di testo dovranno essere scelti tenendo conto di queste Linee guida e anche il linguaggio dovrà essere adeguato… a che cosa potranno dare o negare il consenso i genitori? A che cosa serve concretamente il consenso informato?

Poco sotto si richiama la  nota prot. n. 1972 del 15 settembre 2015 nella quale si ribadisce che «le famiglie hanno il diritto, ma anche il dovere, di conoscere prima dell’iscrizione dei propri figli a scuola i contenuti del Piano triennale dell’offerta formativa e, per la scuola secondaria, sottoscrivere formalmente il Patto educativo di corresponsabilità per condividere in maniera dettagliata diritti e doveri nel rapporto tra istituzione scolastica autonoma, studenti e famiglie. Questa opportunità offerta ai genitori consentirà di scegliere la scuola dei propri figli dopo aver attentamente analizzato e valutato le attività didattiche, i progetti e le tematiche che i docenti affronteranno durante l’anno che, in ogni caso, dovranno risultare coerenti con i programmi previsti dall’attuale ordinamento scolastico e con le linee di indirizzo emanate dal MIUR». L’unica scelta concreta della famiglia sull’educazione dei figli, dunque – secondo le Linee guida ministeriali – è la possibilità o meno di iscrivere il bambino ad un dato istituto scolastico dopo aver preso visione del PTOF.

In sostanza questo documento conferma – se mai ce ne fosse stato bisogno – che l’impianto educativo di riferimento della scuola italiana è fondato su una visione dell’uomo come individuo che si autodetermina, dove i rapporti uomo donna sono letti con lo sguardo deviato del femminismo radicale e che di conseguenza gronda gender da tutti i pori.  Ovviamente il testo non lo dice esplicitamente, anzi arriva quasi a negarlo. Andiamo a vedere il passaggio in questione. Nella premessa si richiama la circolare del 15 settembre 2015, spiegando che l’obiettivo «Si ribadisce, quindi, che tra i diritti e i doveri e tra le conoscenze da trasmettere non rientrano in nessun modo né le “ideologie gender” né l’insegnamento di pratiche estranee al mondo educativo […]  La circolare fornisce chiarimenti riguardo a una presunta possibilità di inserimento all’interno dei Piani dell’offerta formativa delle scuole la cosiddetta “teoria del gender”, che troverebbe attuazione in pratiche e insegnamenti non riconducibili ai programmi previsti dagli attuali ordinamenti scolastici».

Notiamo che in entrambi i casi ideologie gender teoria del gender sono tra virgolette, anche con la premessa di un cosiddetta. Come a dire: è quel fantasma che agita alcuni fissati, ma che ovviamente non esiste. D’altra parte la circolare citata era stata firmata dall’allora ministro Giannini, che in un’intervista a Radio24 aveva detto che «chi parla di teoria del gender in relazione al progetto educativo sulla scuola del governo Renzi compie una truffa culturale»; quella del gender, aveva aggiunto, «è un caso di mistificazione inaccettabile».

Tutto torna insomma: se per il ministro il gender non esiste, non può certamente essere insegnato nelle scuole e siccome non esiste lo scriviamo tra virgolette. Invece, ovviamente, il gender c’è, i contenuti parlano da soli, ma se ancora non bastasse possiamo diamo un’occhiata al linguaggio.  La parola discriminazionecon le sue declinazioni, nel testo si ritrova 33 volte, la parola rispetto 30: un’antilingua che ormai conosciamo da diversi decenni. Anche quello di Trieste si chiamava «Gioco del rispetto»: non era citato il gender, ma vogliamo dire che non ci fosse?

Non c’è bisogno dell’etichetta gender per capire che la scuola italiana ne è già inquinata, con la legittimazione di queste Linee guida e purtroppo non c’è consenso informato che possa metterne al riparo i bambini.  D’altra parte, ancor più dopo la approvazione della legge sulle Unioni civili, potrà mai essere ripreso o criticato un insegnante che in classe faccia riferimento ad un modello familiare composto da due uomini o due donne, considerato buono e meritevole di tutele da parte dello Stato?

Come ogni testo, anche quello delle Linee guida è stato frutto di un compromesso costato sangue a chi crede nella famiglia. Sicuramente poteva essere peggiore, sicuramente si apre la possibilità di chiedere l’esonero dalle attività extracurricolari più insidiose, ma ciò non risolve il problema dei bambini che non saranno esonerati (e che saranno quindi costretti a sciropparsi di tutto) e non cambia l’impianto sostanziale di un intero progetto educativo. Nonostante questo – anzi proprio per questo – la battaglia va combattuta. In ogni classe, di ogni scuola di questo paese. L’allerta resti alta perché bisogna resistere. Grazie al cielo da Nord a Sud possiamo contare su insegnanti indomiti che rischiando reputazione e posto di lavoro non rinunciano a difendere la verità e l’innocenza dei bambini e genitori tenaci e pronti a sacrificare fino all’ultima ora di sonno per difendere i propri figli da una scuola ideologizzata. Non bisogna arretrare di un centimetro, consapevoli però che non abbiamo le istituzioni dalla nostra parte ma le abbiamo contro, e che il buco nella diga è ormai stato fatto, da tempo.

Raffaella Frullone | Tempi.it

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