In tutti questi anni di volontariato al Centro di Aiuto alla Vita Mangiagalli, dopo tanti colloqui effettuati, ho potuto mettere in fila pensieri, riflessioni, emozioni, sensazioni, parole raccontate e ascoltate. Un po’ alla volta, sono riuscita a organizzare nella mia mente, dei convincimenti applicabili quasi a livello universale. Uno di questi prende in considerazione la relazione del bambino da poco nato con la propria madre. Essere stata figlia di una madre scarsamente disponibile e presente per mille ragioni al mondo, fa crescere nella figlia stessa un’incapacità di essere madre a sua volta. Questa è una delle ragioni, numerose volte verificate, che spingono all’interruzione volontaria della gravidanza. Il nostro strumento professionale, di elezione, come spesso mi è capitato di dire, è il colloquio. Un colloquio fatto di ascolto attivo che porti a una consapevolezza di sé e degli atti che compiamo. In questi ultimi giorni, nei racconti che le donne arrivate al nostro Centro, ci regalano, è spesso stata messa in evidenza la carenza, addirittura la mancanza, di una madre.
Giornata difficile per me; la stanchezza non solo fisica, mi pesa fortemente. Gli eventi mi mettono continuamente alla prova e il cammino della vita mi sembra sempre più impervio. Assorta nei miei pensieri, rispondo automaticamente «avanti» a un bussare leggero alla mia porta. Ed eccola, questa giovane donna di trent’anni, richiedere, con la sua presenza, tutta la mia attenzione, la mia accoglienza, la mia condivisione. «Sabrina, vero?», chiedo come a me stessa attingendo alle mie poche risorse.
«Sabrina, sì. Ho trent’anni. Sono gravida alla settima settimana. Non voglio questo bambino. Ho una storia molto strana, me ne rendo conto». «E, se la sente di raccontare questa storia strana?». Un silenzio greve scende nella stanza. La musica di sottofondo fa fatica a riempirlo. Poi: «Mia madre mi ha abbandonato appena nata. Non andava d’accordo con mio padre e, subito dopo la mia nascita, è partita. Non l’ho mai vista. Immaginata, sì. Tra le lacrime, cercando di tratteggiare i suoi lineamenti nel buio. Quando la nonna paterna che mi ha aiutata a crescere mi sgridava, correvo in un angolo e la chiamavo dentro di me. Lei, però, non c’era. Non c’è mai stata».
Sono spaventata da questo modo reiterato di presentare la sua situazione di solitudine. La guardo. Vorrei accarezzarle i capelli ma non oso. «Sono passati gli anni. Come si fa a diventare donna? La prima mestruazione mi ha scioccato. Nessuno mi aveva preparato». Sempre quel desiderio di accarezzarla. «La scuola, i compagni, rarissimi gli amici. A volte qualche compagna mi invitava a casa sua per studiare. Che invidia per la presenza di quelle mamme che preparavano la merenda! Ho avuto alcune storie sentimentali; niente di importante». Si ferma come se rivedesse l’immagine ferma di un film. «Le posso offrire qualcosa?». Le dico come cercando una scusa per riportarla indietro dal passato. «Magari un bicchier d’acqua, grazie». Sembrerebbe voler ingoiare a forza qualcosa che non va giù.
«Mi presentano un uomo ed è come se mi fossi sposata per finta. Dopo un paio d’anni nasce mio figlio. Non c’è una nonna che lo coccoli. Ora ha due anni e mezzo e faccio fatica ad abbracciarlo. Mio marito ha trovato un’altra donna e, solo due mesi fa, mi ha lasciato. Se n’è andato!». Mi chiedo se 2 + 2 faccia sempre 4. Il marito se n’è andato due mesi fa e lei è incinta di sette settimane. Ho sempre sostenuto di sentirmi un po’ marziana e di questi tempi pare che i fatti della vita mi vogliano dare ragione. Sabrina intuisce la mia domanda inespressa. «Le sembrerà strano, sono stata con un uomo appena conosciuto e sono rimasta incinta. Quest’uomo non c’entra con me e con la mia vita. Non ho niente; non ho niente da dare a mio figlio Davide. Come posso pensare di farne nascere un altro a cui, di nuovo, non avrei niente da dare?».
Pensare a una proposta per Sabrina mi risulta particolarmente difficile, quasi impossibile. Perché mettersi ulteriormente nei guai per un piccolo bimbo? Il buon senso comune anche di alcuni dei nostri politici afferma che “lasciatele andare ad abortire in pace”. Tutto ciò mi frulla vorticosamente nella testa e mi sembra non si possa far nulla per colmare questo buco nero. Respiro lungo. Poi: «Sabrina mi ha fatto un grande regalo! Mi ha trasmesso una storia dolorosa. Quanta tenerezza per la bambina che rimane in lei! Vorrei provare a ricambiare il dono prezioso. A volte le donne non valutano la fatica lasciata nel loro cuore dall’interruzione volontaria anche perché nessuno lo dice. Siamo il Centro di Aiuto alla Vita e, in questo momento, due vite mi stanno particolarmente a cuore, sicuramente quella di suo figlio ma molto anche molto la sua. Siamo qui per darle una mano. Ha presente che fatica portare una borsa pesante tutto da soli? Noi vorremmo prendere l’altra maniglia e portare insieme il grande fardello. Potremmo offrirle la possibilità di avere ciò che serve a lei, a Davide e anche a questo bambino che, lei ne è consapevole, non ha chiesto di essere messo in viaggio. Ci piacerebbe seguirla fino al primo compleanno di suo figlio e sostenerla con colloqui a frequenza regolare».
«Non immaginavo che esistessero centri come questo! Ora capisco perché il mio medico mi ha suggerito di venire qui prima di prenotare l’interruzione. Ha insistito molto!». «E come si sente adesso?». «Ho sempre paura ma sento che qualcuno si sta occupando di me. É una situazione insolita ma molto piacevole» Dopo un attimo: «Mi avete accolto quasi a farmi da grembo. Forse potreste insegnarmi a essere accogliente a mia volta. E chi, più di qualcuno che è figlio mio, ha bisogno della mia accoglienza?».
di Paola Bonzi
Fonte: http://www.lanuovabq.it/
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