Sono possibili oggi duemila conversioni in una sola notte?

 

Desidero farvi conoscere un eroe missionario, forse poco noto, il pioniere Berger Johnson, che vive tuttora fra i suoi Indiani d’America. Nel 1914 lasciò la sua patria nordica, l’incantevole Norvegia, ed offrì gli anni migliori della sua vita all’evangelizzazione del Gran Chaco, vasta zona tra i confini del Paraguay, dell’Argentina, della Bolivia. Lasciamo narrare da lui stesso il meraviglioso racconto del suo lavoro missionario fra quelle popolazioni:

“All’orché 28 anni or sono giunsi in queste contrade, non c’erano né strade né viottoli. Un continuo stato di guerra regnava tra i coloni bianchi e le tribù indigene. Queste, decimate dagli spagnoli, che le massacravano spietatamente con le armi, si vendicavano con notturni assalti alle abitazioni dei coloni. Quindi, uccidendo e saccheggiando, si erano ritirate sempre di più verso l’interno inesplorato, per sottrarsi alle rappresaglie.

In queste condizioni, il lavoro missionario non era soltanto difficilissimo, ma pareva impossibile.

Si viveva nel continuo pericolo d’essere assaliti in casa di notte da quelle orde selvagge di cannibali della giungla.

Nondimeno trascorremmo in quelle contrade 22 anni di sofferenze, di rinunzie, d’isolamento, privi d’ogni vantaggio della cultura e del progresso. Il fatto più triste era che non potevamo testimoniare di nessun risultato spirituale, di nessuna conversione tra quelle povere creature. Solo alcuni meticci ed un paio d’indigeni “addomesticati” giunsero ad una vera esperienza di salvezza. Sovente ero tentato d’abbandonare il lavoro, poiché il clima ed il cibo mi rovinavano la salute, deprimendomi di conseguenza anche l’animo ed i nervi. Con delusioni tali, perché avrei dovuto continuare a soffrire più di altri missionari, che avevano potuto scegliere un clima piacevole e delle buone abitazioni? Però, avevo sempre la certezza ch’era stato il Signore a pormi tra quegl’indigeni per annunziar loro il messaggio della Redenzione.

Nel corso degli anni vidi che non sarebbe stato impossibile raggiungere le tribù selvagge dell’interno se fossi riuscito ad aver con me un certo numero di veri, seri e fedeli cristiani indigeni, che mi facessero da guide e da interpreti.

Circa due anni fa, con alcuni di tali cristiani nei quali potevo avere piena fiducia, cominciai a visitare delle tribù stabilite lungo il corso superiore del Pilcomayo, interessandomi in particolare a quella dei Mataco. Sulle due sponde del fiume sorgevano a gruppi le capanne rotonde, costruite con l’erba. Le mie guide ne fecero pure una per noi: così potevamo andare ogni giorno da una casa all’altra, per stringere amicizia, iniziando dal vecchio capo. Nelle sere più fresche e specialmente nelle notti di luna, si faceva adunanza all’aperto. Dapprima si radunarono sulla riva del fiume alcune famiglie, poi delle centinaia ed in ultimo delle migliaia; s’accoccolavano sulla sabbia calda ad ascoltare per ore ed ore il mio insegnamento. Mi dovevo servire di due interpreti, perché i Mataco ed i Toba benché siano vicini da generazioni, parlano due lingue che non hanno nulla in comune fra di loro.

Come predicatore, medico, infermiere, maestro ecc. cercai d’aiutare materialmente e spiritualmente quelle povere creature, ma dopo alcuni mesi di duro lavoro, con mia grande delusione dovetti constatare che esse mostravano ben poco interesse e soprattutto non parevano capire che cosa volessi da loro: mai una domanda che concernesse Dio o la salvezza dell’anima! Perfino la mia assistenza sanitaria e le medicine che distribuivo gratuitamente erano accettate con diffidenza e senza una parola od un cenno di ringraziamento!

Allora cominciai a dichiarare loro apertamente che pensavo di lasciarli presto per non tornare mai più, poiché essi non dimostravano alcun desiderio di conoscere il nostro gran “Padre Creatore”. Avevo intenzione di tornare alla mia stazione missionaria di Embarcacion, che distava 300 chilometri.

Così giunse l’ultima settimana, poi l’ultimo giorno.

Quella sera dissi ai miei uditori che per loro non rimaneva nessuna speranza, se non quella di morire senza Dio come i loro antenati.

La luna spandeva il suo chiarore su tutta quella moltitudine di bruni indiani. Il mio cuore era sul punto di spezzarsi. Avevo terminato (come credevo) il mio ultimo discorso a quei figli dell’antica foresta. Intercedendo con cuore rotto, elevai fra di essi la mia voce per l’ultima preghiera:

“Padre… abbi… pietà di queste povere creature… Non le lasciar andare così… senza salvezza e senza speranza… verso l’eternità… Nel nome di Gesù… Padre!…”

Aprendo gli occhi, che vidi? Un Toba, d’alta statura, s’era alzato dalla sabbia e grosse lacrime cominciarono a rigare il suo viso. Mai avevo visto qualcuno a piangere (cioè a versare lacrime) in tutti quegli anni. L’indigeno, accompagnando l’invocazione col movimento delle braccia, cominciò a chiamare ad alta voce:

“Joneni jallaga nec lechochiyalu!” (Nostro gran Padre, abbi pietà di noi!)

Egli ripetè queste parole diverse volte, supplicando… e in pochi minuti l’intera tribù dei Toba (più di mille anime) si levò e gridò, dimenando le braccia, le medesime parole, con tutta la sua forza…

Dopo un po’ ecco alzarsi anche i Mataco, a implorare pietà, nella loro lingua.

Era uno spettacolo impressionante. Mai riuscirei ad esprimere ciò che sentii in quel momento. Né sapevo che cosa dovevo fare, mentre quella folla di quasi duemila anime era lì che urlava ed il suo grido era come un tuono. Cominciai a piangere, buttandomi in terra, con la faccia affondata nella sabbia del Chaco, che veveva le mie calde lagrime di riconoscenza per la potenza soggiogatrice di Dio. Che notte! Nessuna parola può descrivere la mia esperienza.

Quello straordinario frastuono durò tutta la notte, poi andò affievolendosi man mano che i cocenti raggi del sole tropicale cadevano sulla sconfinata campagna. Allo spuntar del giorno, gl’indigeni tornarono a gruppi alle loro capanne, con le facce gonfie dal gran piangere.

Mi coricai per riposare un momento anch’io, ma fui destato da un calpestio di zoccoli. Che poteva mai essere, se là non c’erano cavalli? Guardando fuori della mia capanna, fui atterrito nel vedere avvicinarsi dei soldati armati, a cavallo. Dalla loro uniforme, riconobbi delle guardie di frontiera boliviane. Andai loro incontro, e quando mi scorsero – solo bianco, fra quegl’indigeni – gridarono con stupore: “”O uomo, che fai in questo spaventoso luogo?”. Poi mi raccontarono che nella notte, dal loro posto sul confine, avevano udito un prolungato e sordo rumore, che pareva un lontano temporale. Gli uni giungevano da 17 ed altri da 22 chilometri di distanza. Li invitai a rimanere un giorno per rendersi conto di quanto accadeva fra i selvaggi. Questi, la sera si radunarono come al solito, il che incuteva paura ai soldati, benché fossero armati. Stupiti, esclamarono: “Ma che forza è questa? Non avete paura di questi selvaggi? Non vedete che, dato il loro comportamento frenetico, potreste essere divorato in un attimo?”. Potei rispondere loro con calma e fiducia. “Oh no, signori miei, non c’è nessun pericolo: questa è la potenza di Dio!”.

E lodato sia il Salvatore! era veramente la forza di Dio, poiché il mutamento che operò in quelle creature fu sorprendente. Anzitutto furon liberate dagli spiriti immondi che da tempi e generazioni le avevano tenute soggiogate. Le loro abitudini pagane furono cambiate in quelle di fedeli cristiani; e anziché di spirito di guerra e d’assassinio, sono ora ripiene di Spirito santo.

Quando dovetti ritornare alla mia stazione di Embarcacion, mi fu assai difficile separarmi da quegl’Indiani. La mia salute aveva molto sofferto e nel lungo viaggio di ritorno attraverso il deserto, mi buscai una polmonite doppia, che mi costrinse a letto, e dalla quale non ho più potuto rimettermi. Ho percorso centinaia di chilometri: accaldato e sudato per le marcie diurne, dormivo di notte sotto i cespugli, mentre cadeva spesso una fredda pioggerella.

Circa un anno fa, vennero a visitarmi due Indiani del Pilcomayo, dove avevo fatta quella meravigliosa esperienza. I loro capi li avevano mandati per prendermi. Mi dissero che per mesi avevano aspettato che tornassi ad insegnar loro la Parola di Dio, e aggiunsero che erano molto ansiosi di conoscere di più il Figlio di Dio, Gesù Cristo. Purtroppo i due cari messaggeri dovettero rifare dolenti la lunga via del ritorno, senza di me, portando anzi la triste notizia che il loro missionario non li avrebbe più visitati, perché era gravemente ammalato.

Tutto questo mi raccontò della sua movimentata storia quel caro servitore di Dio, mentre giaceva sul suo letto di malattia. Il seguito mi fu narrato più tardi da un capo convertito:

“Alcuni mesi dopo il ritorno di quei due messaggeri del Pilcomayo, gli Indiani si consigliarono sul da farsi. Giacché il missionario non poteva più andar da loro, decisero che tutti quelli che volevano si sarebbero recati ad abitare dove viveva l’uomo di Dio. così, una mattina, la stazione fu circondata da più di duemila Indiani, grandi e piccoli, giovani e vecchi. I pochi abitanti bianchi del villaggio di Embarcacion, esterrefatti afferrarono le loro armi da fuoco, per difendersi dagli intrusi. Per fortuna, il missionario, informato della cosa, aveva pregato i meticci di non fare alcun male ai suoi figlioli spirituali, poiché neppure loro non volevano nuocere a nessuno.

Questi Toba e Mataco avevano trascinato nel lungo e arduo viaggio perfino i vecchi ed i fanciullini, e purtroppo parecchi morirono per via! Ad ogni costo volevano rivedere il loro padre spirituale!”

Si presentò naturalmente il problema: come sistemare quella grande moltitudine? – Un ricco proprietario offrì generosamente alla missione un vasto appezzamento confinante col villaggio di Embarcacion. Là gli Indiani ebbero il permesso di costruire le loro capanne e furono loro fornite all’uopo perfino la legna e l’erba. Fu loro anche insegnato a coltivare il terreno.

Di punto in bianco, per così dire, Embarcacion fu arricchita di duemila anime. Alle case dei bianchi è ora unito il grazioso villaggio indigeno, formato di capanne di argilla, quadrangolari, coperte da un artistico tetto d’erba. È il più bell’abitato che esista fra gli indigeni: è tagliato da una via che divide le tribù dei Toba e dei Mataco. In quel villaggio non esistono cattive abitudini, né costumi peccaminosi, né ubriachezze, né fumo di sigarette o di tabacco, né divertimenti mondani, né vergognosa vita notturna. Ogni giorno i cristiani indigeni vanno al culto, presieduto da un loro anziano, coadiuvato da tre diaconi: in tutta semplicità e sotto la guida dello Spirito santo, egli porge alla sua gente il Pane della Vita.

Molto si potrebbe ancora dire di quest’opera; e tutto ciò che il nostro amato fratello Berger Johnson ha fatto meriterebbe d’esser scritto in un libro. Egli sta ora sulla soglia dell’eternità e tutto fa prevedere che presto entrerà nel riposo del suo Signore, che ha così fedelmente servito.

Chi seguirà il suo esempio?

Cristo è ora per quegl’indigeni la sola salvezza e la sola speranza, poiché anch’essi son divenuti partecipi della gloria della Patria celeste. Il Salvatore soffrì e morì onde anche le tribù indiane delle antiche foreste dell’America del Sud fossero salvate!

Dai confini del Paraguay, dell’Argentina e della Bolivia, il 14 settembre 1942.

Albert Widmer

(Albert Widmer, missionario pioniere per 27 anni nell’America Latina e attualmente nella Nuova Guinea)

 

[Tratto da un opuscolo di evangelizzazione intitolato: “Incredibile ma vero…”, “Tre racconti autentici”]

 

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